Il genocidio in Sud Sudan e il ritiro dei primi contingenti ONU

Le opposizioni accusano il presidente Salva Kiir di crimini contro migliaia di civili di etnia Nuer. Le violazioni del cessate il fuoco spingono il Giappone ad abbandonare la missione delle Nazioni Unite.

Il principale colpevole del genocidio che in Sud Sudan si sta consumando nel silenzio generale dei media internazionali è il presidente Salva Kiir.

A denunciarlo ai vertici delle Nazioni Unite e dell’Unione Africana sono sei partiti d’opposizione: il Sudan People Liberation Movement-In Opposition (SPLM-IO), il Sudan Peoples’ Liberation Movement, il National Democratic Movement (NDM), il People’s Democratic Movement (PDM), il South Sudan National Movement for Change (SSNMC) e il National Salvation Front (NAS).

Il fronte anti-governativo accusa l’SPLA (Sudan People’s Liberation Army) e le milizie alleate del presidente conosciute come “Mathiang Anyor” di aver perpetrato interrottamente dal dicembre del 2013 crimini contro la comunità dei Neur, il secondo gruppo etnico del paese a cui appartiene il leader dei ribelli, l’ex vicepresidente Riek Machar: esecuzioni sommarie, torture e stupri di massa, con decine di funzionari religiosi cristiani tra le vittime. Epicentri dei massacri la capitale Juba e le regioni dell’Alto Nilo, Equatoria Bahr el Ghazal.

Un fiume di sangue che ha innescato le azioni di rappresaglia da parte dei Neur e che, dall’inizio della guerra civile nel 2013, ha inondato il Sud Sudan di morti, oltre 30mila secondo le ultime stime della missione ONU nel Paese UNMISS (United Nations Mission in South Sudan).

Sempre secondo le Nazioni Unite, sono oltre 3 milioni i sud-sudanesi che finora sono stati costretti ad abbandonare le proprie abitazioni. Si tratta del più grande esodo in Africa dal genocidio in Rwanda del 1994.

A dimostrare la portata sempre più allarmante di questa crisi sono anche gli episodi di violenza ai danni degli operatori umanitari che operano nel paese.

Tre funzionari della missione del PAM (Programma Alimentare Mondiale) sono stati uccisi la scorsa settimana. Ieri, martedì 18 aprile, sedici membri della missione delle Nazioni Unite nella Repubblica Democratica del Congo MONUSCO (United Nations Organization Stabilization Mission in the Democratic Republic of the Congo) sono stati rilasciati dopo essere stati tenuti in ostaggio per alcune ore da un gruppo di sud-sudanesi appartenenti a un gruppo di circa 530 militanti ex ribelli stanziati nel campo di Munigi, alla periferia di Goma. Il rapimento degli operatori dell’ONU sarebbe stata un’azione di protesta attraverso cui gli ex ribelli hanno chiesto di lasciare il campo e tornare nei loro villaggi.

Lo scoppio della guerra

Nel luglio del 2011 il Sud Sudan, il più giovane Stato del mondo, ha ottenuto l’indipendenza dal Sudan dopo oltre 20 anni di guerriglia che hanno causato la morte di almeno 1,5 milioni di persone e costretto alla fuga dal Paese più di quattro milioni di persone. I primi scontri sono iniziati nel dicembre del 2013 quando il presidente Kiir accusò Machar di aver pianificato un colpo di Stato per far cadere il suo governo.

In questo lasso di tempo il conflitto, come detto, ha visto contrapposte le due principali etnie del Paese: da un lato i Dinka, il gruppo dominante, fedeli a Kiir; dall’altro i Nuer, al fianco di Machar. Il risultato sono oltre due anni di scontri etnico-tribali, con rappresaglie casa per casa, villaggi rasi al suolo, migliaia di morti e oltre 3 milioni di sfollati (di cui 1,6 fuggiti nel vicino Sudan) su una popolazione totale di 11 milioni di persone.

A fine agosto 2015, sotto la pressione delle Nazioni Unite e della comunità internazionale, le parti sono state spinte a firmare un accordo di pace.

Per porre un freno alle violenze, soprattutto gli Stati Uniti hanno puntato su una strategia diplomatica aggressiva, minacciando di imporre pesanti sanzioni economiche e l’embargo sull’acquisto di armi al governo del Sud Sudan qualora Kiir non avesse seguito l’esempio di Machar firmando l’intesa.

Il patto prevedeva la fine immediata dei combattimenti e la deposizione delle armi da parte di soldati e guerriglieri entro 30 giorni, la liberazione di tutti i prigionieri e dei bambini-soldato, la demilitarizzazione della capitale Juba, la formazione di una sorta di “guardia nazionale” che avrebbe dovuto assorbire le forze di polizia, l’insediamento entro 90 giorni di un governo transitorio di unità nazionale chiamato a guidare il Paese per trenta mesi fino a nuove elezioni e, infine, l’istituzione di una commissione d’inchiesta per vigilare sul processo di riconciliazione e indagare su migliaia di casi di violazione dei diritti umani.

Successivamente, il 29 aprile del 2016, è stata annunciata la formazione di un governo di unità nazionale.

Sulla carta si sarebbe dovuto trattare di un esecutivo di transizione chiamato a traghettare il Paese verso nuove elezioni entro 30 mesi. Ma a poco più di due mesi di distanza dal giorno della firma, di questo accordo è rimasto ben poco.

Gli orrori degli ultimi mesi confermano che il Sud Sudan continuerà a fare i conti ancora a lungo con gli strascichi di un conflitto in cui entrambe le parti hanno commesso atroci violenze (uccisioni di massa, omicidi di bambini e stupri di gruppo) e sistematiche violazioni dei diritti umani.

Una situazione di caos permanente per la cui risoluzione le grandi potenze occidentali non sembrano intenzionate a intervenire, essendo più interessate a tutelare i contratti petroliferi che hanno continuato a rispettare – e in alcuni casi a implementare – nonostante la guerra. Il Sud Sudan possiede infatti immensi giacimenti, i terzi per estensione in tutta l’Africa Sub-sahariana.

Il fallimento delle Nazioni Unite

Nell’instabilità che regna sovrana da oltre tre anni, la missione ONU in Sud Sudan è finita più volte nel mirino delle critiche. Un rapporto del gruppo di ricerca con sede a Ginevra Small Arms Survey ha accusato la missione di aver fornito armi ai ribelli del Sudan People’s Liberation Movement-in-Opposition (SPLM-IO) guidato da Riek Machar nell’area settentrionale di Bentiu nel 2013. Armi con cui sarebbero stati compiuti massacri di civili.

Altre accuse sono piovute sulla missione nel luglio del 2016, quando nei giorni degli scontri tra forze governative e ribelli che hanno causato oltre 300 morti e migliaia di sfollati nella capitale Juba, i caschi blu non sono riusciti a trarre in salvo dalla mattanza molti civili ed evitare che donne, ragazzi e persino operatori umanitari subissero abusi sessuali.

E la decisione del Giappone di avviare a partire da oggi, mercoledì 19 aprile, il ritiro del proprio contingente (circa 350 effettivi) da Juba dopo cinque anni di permanenza per le ripetute violazioni del cessate il fuoco, è lo specchio fedele dell’incapacità di questa missione di incidere sulle sorti di questo conflitto.

Articolo preso da: LookOut News