Sud Sudan. Le improbabili elezioni del 2018

Si riducono al lumicino le flebili speranze, ancora vive, di una pacificazione in tempi brevi nel più giovane stato africano. La forte aura negativa che ha avvolto il paese subito dopo la secessione dal Sudan, continua ad aleggiare sui cieli di Giuba, e c’è da credere che lo farà anche nel prossimo futuro.

La nascita di nuovi gruppi di ribelli armati rende difficile il raggiungimento di una pace condivisa, lacerando il paese da dentro, come ben altri tristi esempi nel corso della storia umana.

Ogni nuovo capo locale autoproclamato con la forza delle armi va a diluire ulteriormente la capacità contrattuale del governo ufficiale di Giuba del presidente Salva Kiir, ormai senza il controllo diretto in molte porzioni del territorio nazionale.

Ultimo evento in ordine cronologico in cui si può ravvedere un sintomo di quanto sopra scritto, il rifiuto del generale Thomas Cirilo Swaka, capo di un nuovo gruppo ribelle, dell’amnistia offerta dal presidente Kiir qualora avessero abbandonato le armi e preso parte alla formazione di un governo ed un esercito di unità nazionale.

L’occasione del perdono presidenziale rispedito al mittente ha rappresentato anzi la possibilità per Swaka di lanciare un appello alla comunità internazionale e attaccare direttamente il presidente Kiir, ritenuto dai guerriglieri unico colpevole della guerra civile.

Secondo le accuse ci sarebbe difatti la sua regia dietro le latenti tensioni etniche che hanno lacerato il paese, fomentate finanche all’interno delle istituzioni governative e tra le fila dell’esercito regolare.

Verità? Propaganda? Poco importa ormai, quello che preoccupa è l’unica certezza portata in dote dalle parole di Swaka: l’allontanamento dell’orizzonte temporale di un cessate il fuoco duraturo e rispettato.

Un caos nel caso in cui a rimetterci è solamente la popolazione inerme.

Crimini di guerra, bambini soldato, stupri come arma di guerra, pulizie etniche rimangono una costante senza una soluzione, a cui si aggiunge una perdurante crisi economica da cui sembra impossibile uscirne.

Il tutto con lo sfondo della comunità internazionale, incapace (?) di impegnarsi concretamente per imporsi sui diversi contendenti.

Le ultime sanzioni imposte la settimana scorsa dagli Stati Uniti su altri tre esponenti sud-sudanesi (Malek Reuben Riak Rengu vicecapo della difesa del SPLA, Paul Malong ex capo dell’esercito esautorato a maggio 2017, e Michael Makuei Lueth ministro dell’informazione) accusati tra le altre cose di aver ostacolato più o meno indirettamente le operazione di umanitarie e di peacekeeping nel paese, molto difficilmente condurranno ad un esito risolutivo in breve tempo del conflitto in essere.

A dimostrarlo è la storia del Sud Sudan. Le sanzioni del giugno 2015 imposte dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU verso sei generali dei diversi schieramenti in campo, a cui si sommarono nel novembre 2016 quelle statunitensi contro il capo di stato maggiore Paul Malong Awan, non portarono ad alcun risultato concreto.

Al contrario esse avranno solamente il merito di esacerbare ancora di più il confronto, in un gioco del “tutto o niente”, del ritrovarsi con i “ponti bruciati alle spalle”, tutto sarà permesso pur di arrivare alla vittoria finale, e diventare l’unico interlocutore del mondo occidentale.

Quale potrebbe essere allora la strada percorribile per far sedere al tavolo della contrattazione governo e ribelli?

Impossibile da dire, ma certamente l’abbandono del crogiolo di buone intenzioni sbandierato da troppi anni e un approccio più realistico da parte dei mediatori impegnati in prima persona (Etiopia, Kenya, Stati Uniti, Regno Unito, Norvegia, Tanzania e Sud Africa), abbandonando per un attimo gli interessi particolaristici, potrebbe rappresentare un primo passo molto importante nella giusta direzione.

Articolo preso da: Notizie Geopolitiche